su blog de chie non cheret seberare intro natura e cultura

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lunedì 21 febbraio 2011

21 frearzu 2011, die internatzionale de sa limba mamma

The International Mother Language Day (IMLD) was proclaimed by the General Conference of UNESCO in November 1999. It has been celebrated since 2000 to promote all the languages of the world. This Day represents an effective mobilization opportunity for linguistic diversity and multilingualism.

The edition 2011 of the IMLD focuses on the theme: The information and communication technologies for the safeguarding and promotion of languages and linguistic diversity.


Oe est sa die de sa limba mamma, oe est sa die chi si nde diamus a dèpere regordare de su chi semus. Oe sos chi gherrant pro sas limbas anzenas si nde diant a dèpere regordare de s'issoro; oe est cussa die chi totu sa zente chi pentzat a una natzione = una limba diat a dèpere provare ite cheret nàrrere a non tènnere natzione e a non tènnere limba o ite cheret nàrrere a tènnere una limba e a disizare una natzione. Deo, pro contu meu, ispero solu chi fizu meu potzat tènnere in su tempus benidore sa possibilidade de faeddare sa limba sarda, sa limba chi faeddo deo, chi faeddant babbu e mamma, chi ant faeddadu sos ajajos meos e sos antigos seneghesos e sardos. Deo ispero solu chi a sos sardos non càpitet sa disgràtzia de non cumprèndere prus su sinnificadu de sos nùmenes de sos logos in ue bivint.

Cosa vuol dire Arena iscoada? Boh.
Cosa vuol dire Malu entu? Boh.
Cosa vuol dire S'archittu?
Cosa vuol dire domo?
Cosa vuol dire essere sardi?
Non lo so e se lo so, lo so dire solo in una lingua che non è quella che delinea i tratti di quel mondo. 
Quei suoni sono solo un eco. Non li comprendo e il suolo dove vivo mi è estraneo.
Non so dove sono. Non lo so.
Ora sono cittadino del mondo, orgogliosamente, non ho più radice.

Cosa dici? 
Che lingua è?
Non conosco io, la lingua del mondo.
Ora il mondo non mi appartiene più.
Non ne conosco i significati, non ne riconosco la sfericità e quella piccola isola da cui sono partito è solo un vago ricordo. 

Fizu meu torra a domo, nùmena sas cosas de sa terra tua in sa limba tua e sas cosas de su mundu in sas milli e milli àteras limbas; respeta sa diversidade; ammenta semper ca sa mata immanniat si est frimma in sas raighinas suas.
Oe est sa die de sa limba de mamma e de babbu, non dda refudes, non dda immèntighes. 

Cisàus su "La gazzetta del Sulcis"

Non lo avevo ancora fatto, lo faccio ora. Grazie a Alessandro Carta per questa bella recensione.




UNA SARDEGNA TRA VECCHIE E NUOVE REALTA’
NEL ROMANZO “CISAUS” DI TORE CUBEDDU


E’ una Sardegna carica di humus arcaico, in cui s’innestano le devianze del giorno d’oggi, a caratterizzare “Cisaus”, l’ultimo romanzo di Tore Cubeddu, edito per conto di “Transeuropa Edizioni”. Dentro la cornice paesana, che riedita una Sardegna ancora alle prese con le faide, si concentra la trama del libro che si sviluppa con un misto di parlate in limba o comunque con costrutti sardo-italiani. Teatro di gran parte di “Cisaus” è la piazza principale del paese Paberile, sulla quale si affaccia un bar (forse l’unico) assai frequentato soprattutto dai giovani amanti “di farsi una birra”. Ma il gran merito di Tore Cubeddu è originato dall’ampia descrizione di tradizioni e luoghi comuni della cultura e della vita dei paesi interni sardi, dove la sbronza, la droga, le auto sportive sono il substrato dei balentes locali. D’altro canto, sono sempre state poche le occasioni per diversificare il canovaccio della vita paesana: la festa del paese, l’annata agraria ben riuscita, una laurea e poc’altro. Al contrario, invece, gli elementi capaci di far rumore erano molti di più: il corteggiamento fuori ceto, il ricordo di una faida, la vendetta con la decapitazione della vigna o di animali, la decisione di uscire dal grigiore della quotidianità. Ai  giovani, cui mancavano elementi di stimolo, non restava che il bar fin dalla mattina, dove il consumo della birra scorreva di pari passo con il flusso sanguigno. “La piazzetta del bar era come una vedetta dell’antincendio. Era il nostro punto di osservazione. Da lì miravamo il mondo a cerchi concentrici e come il riverbero di un gong riuscivamo a coprire g r a n d i s s ime   d i s t a n za e   s e n z a  muoverci di un passo. L’appuntamento al bar Centrale era come un rito e la bevuta di birra quasi un’attività. E non dovevi mai rispondere che non facevi nulla perché bevevi, perché in effetti qualcosa la stavi combinando”...”Aggrappati al bancone del bar come a uno scoglio dopo il naufragio”. Anche le famiglie avevano una vita cadenzata, originata dagli eventi dalla vita più che dalla propria intraprendenza. Anche i benestanti godevano poco, né potevano fare a meno della collaborazione dei braccianti o servi pastori. “Dopo la morte di mio nonno anche   in  c a s a   ini z iò  a   t i r a r e un’altra aria, forse perché sia mia madre che mio padre erano diventati, finalmente genitori, a loro volta radice, indesideratamente.Ora erano loro i saggi e dovevano cercare in se stessi le risposte alle tante domande da figli che ancora si ponevano”. Una condizione di crescita che, in una società matri-patriarcale, poteva trovare spazio solo dopo il trapasso degli anziani. A Paberile questa era la regola, sia pure non scritta, ma ineluttabilmente vissuta da tutti. L’unica novità fu la creazione di una sorta di discoteca, mediante il recupero di un diroccato caseificio ubicato alla periferia del paese. Così nacque “Cisaus” dove i giovani avevano tentato di smorzare la propria vuota giornata. “Mezzo paese era venuto a vedere il prodigio di Cisaus: il caseificio diventato discoteca”. Questa rivoluzionaria iniziativa, attivata da un gruppo di giovani del paese, aveva scosso la vita piatta e tranquilla di Paberile, al punto d’aver suscitato l’attenzione dei sonnacchiosi “caramba” che colsero intorno al “Cisaus” un movimento strano di spaccio proveniente da fuori. Né andò bene a chi, giovane del paese, si adattò a lavorare nello scortecciamento delle sughere del vicino Lacos dove un giorno occorse un fattaccio che segnò la vita di loro. Tra questi, tuttavia, c’era  anche chi riusciva a uscire dalla mediocrità iscrivendosi all’Università in Filosofia. Questi,  Raimondo Flores, era un po l’equilibrio in persona, ma non sempre la sua compostezza lo immunizzava da spiacevoli conseguenze. Tore Cubeddu ha imbastito una storia, con “Cisaus”, che si srotola in maniera leggera, anche se la trama presenta aspetti talvolta drammatici, di quelli che la quotidianità presenta non solo più in Sardegna, in Sicilia o in Calabria, regioni notoriamente calde in fatto di faide. L’obiettivo di Tore Cubeddu, almeno leggendo tra le righe, sembra più indirizzarsi alla descrizione di ambienti paesani sardi, dove gli abitanti, più che protagonisti, sono sempre spettatori di ciò che accade. Sono ambienti fami l i a r i ,   compor t ament a l i   t r a giovani, linguaggi licenziosi, diffidenze incrociate, quasi assenza di voglia d’uscire dalla monotonia. “Farsi una birra” per i giovani è quasi un lavoro, perché scandito alla stessa ora del giorno.

http://www.gazzettadelsulcis.it/gazz_archivi/510.pdf

giovedì 17 febbraio 2011

PATRIA AMORE E TANTA (MA TANTA) FANTASIA

I ceci sono un alimento base nella cucina medio orientale. Basti pensare ai famosi falafel, polpettine di ceci e spezie (foto accanto), o a all'hummus, una sorta di purèe in cui sono amalgamati ad aglio, prezzemolo, succo di limone, e olio di sesamo. In India la farina di ceci è spesso utlizzata per la preparazione del pane.



Il nome Il nome deriva dal latino cicer. Il cognome di Cicerone discendeva da un suo antenato che aveva una verruca a forma di cece sul naso.  A Roma la notorietà del cece era tale da dedicargli il cognomen di una delle famiglie più note: dei Ciceroni. Durante l'epoca di Carlo Magno era d'obbligo coltivare i ceci in ogni possedimento imperiale. Anche detto... Basilicata: cic'r , Calabria: ciciaru, Campania: cìcero, Liguria: çeìxo (sing.); çeìxi (pl.), Piemonte: cisi, Puglia: cìcere, Sardegna: cixiri (pronuncia: cijiri), basolu pittudu o tundu, Sicilia: cìciru.

Mi direte, ma cosa c'entrano i ceci con la patria e con l'amore? e con la fantasia?
Niente, forse, ma ieri sera, a San Remo è successo un fattaccio. I ceci hanno inesorabilmente incrociato la storia della nazione, nazione in senso francese. Il cece, arma di libertà. Il cece, seme della rivoluzione. Così, quando Benigni ha detto, nel pieno fervore patriottistico del suo racconto, che gli angioini vessavano la Sicilia e che questa povera Italia era stata per secoli dominata dal vile straniero (cit. che violentava e saccheggiava), ho pensato, ma questa storia l'ho già sentita. Poi quando ha aggiunto, Ma lo sapete come facevano i siciliani per riconoscere i francesi?, ho pensato, chissà, e come facevano? E lui ha finalmente ci ha dato la soluzione di questo annoso rebus: facevano dire loro "CIXIRI" e questi naturalmente non lo sapevano dire, pensate che geni questi siciliani.
Ma ho sentito bene? Ma avete letto bene e se lo avete sentito avete sentito bene anche voi? Lì per lì sono rimasto di sasso. Ho pensato, non può essere, poi ho guardato mia moglie e lei guardava me con l'espressione "non può essere". L'ha detto veramente.
Non è possibile. Ieri Benigni pur di esaltare gli spunti nazionalistici e patriottistici di questa povera e inutile Italia dilaniata dalla miseria morale e politica, incapace di far convivere i biondi con i bruni i baffuti e i glabri, ha fatto ciò che un esegeta non dovrebbe fare (visto che per l'esegesi dell'inno gli hanno dato 250.000 euro): ci ha messo la fantasia. Allora passi che secondo lui, in piena coerenza con il principio una nazione una lingua, i cosiddetti "dialetti" non possono scrivere "La critica della ragion pura", è opinabile e del resto i padri costituenti dell'Italia erano più accorti di lui, visto l'articolo 6 (La Repubbliche tutela con norme apposite le minoranze linguistiche), ma questa cosa dei ceci proprio non mi va giù e secondo me non sono contenti nemmeno i piemontesi (cacciati dalla Sardegna nell'aprile del 1794, in quella che oggi chiamiamo SA DIE DE SA SARDIGNA), che magari ancora oggi rivendicano la loro lingua di stato, il francese,  come unica lingua della patria. A me, poi, i ceci non sono mai piaciuti e anche ieri sera era come se quella pellicina che hanno quando li metti nel minestrone, mi fosse rimasta attaccata al palato. Ma forse sognavo o forse ero in Sicilia.

sabato 12 febbraio 2011

Cisàus a Cabras

19 febbraio 2011, Cabras
Museo Civico, ore 17,00
Organizzazione
Comune di Cabras
Cooperativa Cultour, Cabras
Cooperativa Gli scapigliati, Cabras
Interverranno:
Brunella Salis, Responsabile della Biblioteca Comunale
Daniela Pes, Cultour Società Cooperativa.


martedì 8 febbraio 2011

IL CINEMA RACCONTA IL LAVORO

Dae su 10 a su 13 de frearzu 2011 in Casteddu, "Il cinema racconta il lavoro".
Zòbia ant a èssere premiados sos progetos chi ant bintu sa de tres editziones de su cuncursu.
Dae chenàbura a dumìniga ddi at a èssere su workshop e dònnia sero sas proietziones de sos film chi ant bintu sa prima e sa segunda editzione in sa sala de sa Cineteca sarda, viale Trieste 118, Casteddu